Riforma della politica

I continui scandali che riguardano i partiti e la classe politica sono percepiti ormai come endemici alla democrazia italiana, tanto da averne minato l’autorevolezza.

Il fatto è tanto più grave se si considera che, con il tempo, i partiti sono usciti dal perimetro di loro pertinenza ed hanno occupato ogni spazio pubblico: gestiscono candidature e nomine alle principali cariche istituzionali; scelgono i Cda delle aziende pubbliche, grandi e piccole; decidono le politiche del Paese; partecipano ad una cospicua distribuzione di denaro pubblico, sotto forma di finanziamnto pubblico prima, e di rimborso elettorale adesso.

Da qui l’importanza di una riforma dei partiti.

La Costituzione, all’art. 49, ne parla in questi termini: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.

Non molto, in effetti: per il Costituente i partiti sono associazioni di cittadini, libere e democratiche. Poco di più precisano gli altri due articoli della Costituzione collegati al 49: l’art. 18, sul diritto di associazione, e l’art. 98, sulle limitazioni per l’iscrizione ai partiti. La prudenza costituzionale non deve stupire: il periodo storico in cui venne emanata aveva inevitabilmente come priorità la libertà anche dei partiti, non intromettendosi nella loro regolamentazione interna.

Adesso, però, il contesto è completamente mutato e una disciplina dei partiti non è più rimandabile. Del resto, ci sono soggetti di diritto privato, tra cui le fondazioni, che per ottenere la personalità giuridica devono presentare apposita domanda e seguire un complesso iter burocratico, solo al termine del quale possono, eventualmente, essere iscritti nel Registro delle persone giuridiche istituito presso le Prefetture. Non si capisce perché, allora, ciò non debba valere anche per i partiti, che, da un lato, svolgono un importante compito pubblico, e, dall’altro, beneficiano di quote considerevoli di finanziamento statale.

Va da sé che non è semplice stabilire il limite oltre il quale l’intervento del legislatore nell’organizzazione interna dei partiti rischia di limitarne l’autonomia, con possibili conseguenze indirette anche sulla identità ideologica degli stessi. Questo, però, non può incidere sul diritto dei cittadini di pretendere che i denari pubblici vengano assegnati soltanto a quelle associazioni di persone che, rispondendo ai requisiti stabiliti per legge, possano essere definite partiti.

Naturalmente, sarebbe un’ingenuità immaginare che una legge attuativa dell’art. 49 possa essere la soluzione ad ogni degenerazione del sistema partitico. Statuti e Regole non possono, di per sé, assicurare partiti migliori, o più “morali”. Tuttavia, imponendo il rispetto di determinati vincoli, il legislatore può ottenere almeno due risultati. Da un lato, vigilare sulla democraticità dei partiti, con ciò favorendo quella partecipazione politica dei cittadini incoraggiata dalla Costituzione. Dall’altro, contribuire ad aumentare la trasparenza nella gestione dei partiti, subordinando la concessione dei rimborsi elettorali e di qualsiasi altra forma di finanziamento pubblico al rispetto dei vincoli legislativi.
Non deve trattarsi di un obbligo: la nostra proposta è che i partiti debbano poter scegliere se sottostare o meno alla disposizione del legislatore, consapevoli, però, che ciò condiziona il diritto di usufruire di risorse pubbliche.