Autonomia, le ACLI: «Regionalismo sì, ma niente strappi»

Il presidente nazionale Roberto Rossini interviene nel dibattito: «Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna chiedono più competenze rispetto alle altre Regioni a statuto ordinario. Richieste simili stanno arrivando da Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania. Due le domande che devono orientare chi è chiamato a decidere. Avremo migliorato la vita di tutti i nostri concittadini o ci saremo occupati solo di una parte? Avremo usato la libertà per una maggiore uguaglianza o per una maggiore diseguaglianza?»

«La polemica politica di questi giorni ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’autonomia differenziata. La discussione, però, è condizionata da molta propaganda e non entra quasi mai nel merito delle questioni e questo non aiuta a formare posizioni consapevoli». Roberto Rossini, 54 anniu, bresciano, dal 2016 presidente nazionale delle Acli, interviene nel dibattito sulle autonomie. Cominciando con il riassumere le termini principali della questione. «Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna chiedono più competenze rispetto alle altre Regioni a statuto ordinario, sulla base dell’ articolo 116 della Costituzione. Un primo accordo tra le tre Regioni e lo Stato venne firmato dal governo Gentiloni, nel febbraio 2018. Il Governo Lega-M5S ha portato avanti il percorso di attuazione delle autonomie e, nel febbraio 2019, ha pubblicato i testi delle bozze di intesa».

«Ma non è tutto così liscio», osserva Rossini: «Non sono state ancora definite le modalità con le quali si perviene ad un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate; manca una disciplina del procedimento attuativo; l’attività conoscitiva avviata da parte delle due commissioni bilaterali permanenti è ancora in corso in Parlamento; infine stanno arrivando anche altre richieste, da Piemonte, Liguria, Toscana, Marche, Umbria e Campania».

Insomma, la faccenda si fa complessa. «Ci sono alcune criticità specifiche da segnalare, quattro almeno», puntualizza il presidente nazionale delle Acli. «La prima criticità riguarda i soggetti della trattativa. Finora il percorso si è svolto solo tra gli esecutivi: Governo da una parte, Giunte regionali dall’altra. Manca ancora all’appello il Parlamento. I presidenti Casellati e Fico hanno, però, assicurato un coinvolgimento delle Camere e non può essere diversamente: il Parlamento della Repubblica dovrà potersi esprimere in modo chiaro poiché non è pensabile che il suo ruolo si riduca ad una mera ratifica. Quello che manca è una vera discussione e mobilitazione nel Paese, tra i corpi sociali, nell’opinione pubblica, che possa orientare il legislatore e il Governo».

«La seconda criticità è conseguente e riguarda il modello da perseguire: qual è il riferimento?», prosegue Rossini. «L’istituzione delle Regioni aveva anche l’obiettivo di mitigare le differenze economiche e sociali all’interno del Paese. Non è andata esattamente così, e oggi lo vediamo con sempre maggiore evidenza: cresce il divario tra nord e sud. Questo processo di autonomia, per come sta procedendo, rischia di andare nella stessa direzione. Andiamo incontro ad uno Stato nazionale al cui interno avremo delle Regioni a statuto ordinario, poi alcune a statuto speciale e poi altre ancora con autonomie differenziate, con regimi diversi a seconda delle funzioni ottenute sulle materie, magari con diverse aliquote di compartecipazione ai tributi erariali e con attribuzioni differenziate di competenze con i Comuni e gli enti locali. Per non parlare dei due settori più sensibili: sanità e istruzione. Non si rischia di produrre (magari involontariamente) un modello confuso? I principi di eguaglianza e di solidarietà, alla base della nostra architettura costituzionale, suggerirebbero invece un modello cooperativo, con al centro la responsabilità e l’interesse nazionale».

«La terza criticità concerne le materie. Nel caso del Veneto sono semplicemente tutte quelle possibili, così come dall’articolo 117 della Costituzione: dalla scuola ai trasporti, dalla sanità allo smaltimento dei rifiuti, dal lavoro alla formazione fino alla gestione diretta dei siti riconosciuti dall’Unesco. Per le altre Regioni le richieste sono più limitate. Quindi avremmo più sistemi ed ordinamenti regionali per le varie materie ed è pertanto ineludibile definire con precisione come saranno garanti i livelli essenziali di assistenza e dei livelli essenziali delle prestazioni per tutti i cittadini italiani. Si tratta di ambiti del nostro vivere comunitario, delle modalità di funzionamento del settore pubblico e di erogazione dei fondamentali servizi pubblici in Italia che non dovranno avere discriminazioni territoriali».

«Infine le risorse finanziarie. Rimane, come in molti casi, la questione centrale, che dovrebbe essere posta come premessa a tutto il resto. Si tratta di contemperare due esigenze, l’autonomia dei territori e la solidarietà tra i territori, garantendo a tutti i cittadini i livelli essenziali delle prestazioni. I governatori delle tre Regioni hanno spesso ripetuto che gli accordi saranno a costo zero per lo Stato e per i cittadini. Ma come stanno insieme queste due cose: i Lep garantiti a livello centrale e le risorse finanziarie erogate sulla base di fabbisogni standard in misura economicamente privilegiata? Le tre Regioni infatti chiedono di trattenere risorse e quindi, automaticamente, di compartecipare al debito dello Stato in maniera differente con il rischio che tale peso venga scaricato sulle altre regioni. È il tema cruciale della discussione. Bisogna contrastare le posizioni di chi, con l’autonomia differenziata punta, in realtà, a trattenere nelle proprie Regioni il così detto residuo fiscale, ovvero la differenza tra le entrate fiscali prelevate e quelle che realmente vengono spese in quel determinato territorio».

Roberto Rosini si limita a «una sola conclusione, per il momento»: «Dire che tutte le Regioni sono uguali non significa poi trattarle tutte allo stesso modo. Lo Stato è una garanzia ma le Regioni possono essere una grande opportunità per rileggere il modo con cui rispondere oggi ai bisogni dei nostri concittadini. È anche giusto tener conto di alcune condizioni che rendono differenti le Regioni, per valorizzarle o per aiutarle a far sì che ogni cittadino italiano goda di una buona qualità della vita, indipendentemente da dove decidere di crescere o di studiare, di lavorare o di sposarsi. Questo obiettivo va però perseguito tenendo conto che l’architettura di uno Stato è una cosa complessa: spostare un elemento significa provocare effetti anche in tanti altri ambiti. Per questo un processo simile richiede un approccio che deve essere molto cauto, molto saggio e molto poco esposto alle dinamiche elettorali. Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna pongono questioni importanti: ma occorre andare oltre, cogliendo la sfida della modernizzazione di tutta la Repubblica.

«L’Italia non verrà spaccata dall’articolo 116 della Costituzione poiché lo è già. Vorrei a tal proposito solo citare una indagine dell’Iref-Acli sulle 5 Italie o il recentissimo Rapporto di Fondazione Etica sul rating pubblico delle regioni. E su questo che forse le Istituzioni, la politica e la società dovrebbero interrogarsi e a provare a mettere in campo scelte e progetti concreti, perché, alla fine di tutto questo. ci chiederemo ancora e solo una cosa: avremo migliorato la vita di tutti i nostri concittadini o ci saremo occupati solo di una parte? Avremo usato la libertà per una maggiore uguaglianza o per una maggiore diseguaglianza?»

(da Famigliacritstiana.it – 14/7/2019)